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Testi e narrazioni

Dal Settecento a oggi varie persone hanno scritto su Riofreddo, dipingendo o osservando i suoi paesaggi e la sua gente, raccontando di fatti avvenuti, interpretando la sua storia e la sua cultura, ricordando la propria esperienza di villeggianti.

Si ricordano in particolare: Sir Henry Colt O'Hare (viaggiatore,1792), Enrico Coleman (pittore, 1887), Don Bartolomeo Sebastiani (1830 circa), Harriet Constance Hopcraft  (villeggiante e residente, 1910), Domenico Presutti (prima metà dell’Novecento), Gastone Imbrighi (studioso, 1989), Torquato Rocchi (maestro di scuola, 1998), Piero Marietti (villeggiante, 2001), Artemio Tacchia (maestro di scuola e storico, 2001).

Sir Henry Colt O'Hare, 1792

Riofreddo visto da un viaggiatore inglese del XVIII secolo

"Subito dopo raggiunsi Rio Freddo, un villaggio situato su un promontorio dove le ristrette montagne formano un angusto passaggio e la strada scende serpeggiando lungo il declivio di una profonda valle sottostante. In questo punto che segna il confine tra il territorio napoletano e quello della Chiesa c'è un piccolo posto di dogana, ma io non feci alcuna esperienza né in ordine al fastidio né in ordine alla cupidigia, cose che sono abituali in tali uffici doganali. Poco distante da Rio Freddo c'è una scoscesa e ripida discesa chiamata “la Spiaggia”. Sia qui che prima, notai evidenti tracce della via Valeria particolarmente in un punto dove la roccia è stata tagliata e portata via, per aprire un varco. Tra questo declivio e il territorio napoletano presi ad incamminarmi per la strada cattiva che si era resa impraticabile da poco per via dell’abbondante pioggia caduta per parecchi giorni di seguito."

Enrico Coleman (1887)

"Siamo a Riofreddo [….] verso la metà di settembre. Nell’unico caffè del paese, io e l’amico Cesare Bertolla del Ministero degli Esteri, bravo pittore e appassionato cacciatore, fumiamo la pipa accanto al fuoco […]. Entra ‘zi’ Antonio, piccolo possidente del paese e nostro amico; egli possiede un ‘arboreto’ o vigna alle falde del monte dove, nella notte, viene una compagnia di pernici a rimpinzarsi di grano, frutta e chioccioline. […] Si combina pel domani […]. (Al mattino presto), giunti al caffè manca Virginio, e manca la Guardianella, altro cacciatore molto famoso del paese, che ha perduto il suo bracco (chiamato Serpente). […] Quando usciamo dal paese al suono della musica delle nostre otto scarpe chiodate sul lastrico levigato, già il giorno si indora sulla cime del Velino. Però poco dobbiamo camminare e presto ci arrampichiamo sulle ripide rocce al disopra dell’arboreto di zì Antonio. Le perniggi intanto hanno avuto tutto il tempo [di fuggire]. Starrào più a monte dice Guardianella; e su e su. Il sole fa capolino e sulla canna del fucile cade il primo gocciolone di sudore. Al di sotto di noi l’altipiano del Cavaliere pare un immenso mare, bianco di nebbia, donde emergono come isole incantate le cime più alte dell’Appennino. Tutta la natura lentamente si desta e sembra innalzare un inno di grazie al Creatore per il ritorno dell’astro benefico .… […] Prendo di mira la testa del branco e lascio andare i miei due colpi; e mentre l’eco delle fucilate si ripercuote morendo fra tutti i monti intorno, vedo roteare la mia vittima nell’azzurro vuoto sottostante e sbalzando di sasso in sasso cadere a capofitto giù in fondo. […] Intasco la mia preda con un po’ di orgoglio e, pieni di ardore, ci mettiamo appresso alle pernici su per i dirupi del monte Peschioso. […]  Momenti deliziosi ! Siamo sdraiati proprio sul vertice della montagna […] e il nostro sguardo indolente abbraccia un meraviglioso spettacolo. Molto al di sotto l’altipiano del Cavaliere, e boschi, e vallate, e torrenti; in faccia all’intorno quattro o cinque linee di alti monti frastagliati, come marosi pietrificati di un immenso oceano […]. Il cielo azzurro è profondo come l’eternità ! Non spira alito di vento e tutto è quiete. Una tenue onda melodiosa composta dalle campane di tanti paeselli invisibili […] sale fin qui; mista di tanto in tanto a brani indefiniti di musica strumentale e a lontani spari di mortaretti, che sembrano venire dalle viscere della terra. Sono le 11 ed è di domenica; e in più d’uno di quei paeselli certo si celebrerà la festa del santo patrono."

Enrico Coleman, La caccia in montagna, in P.A. De Rosa e P.E. Trastulli (a cura  di), Enrico Coleman, 1846-1911. Pittura e natura, 1887.

Don Bartolomeo Sebastiani (1830 circa)

"I malviventi che nel 1587 infettavano tutto lo stato Pontificio, sorpresero ancora, ed apportarono del guasto in Riofreddo. Gli abitanti sforniti di mezzi umani per la difesa implorarono gli ajuti di Dio e l'ottennero mediante il ricorso a S. Atanasio come protettore dei perseguitati, e furono liberati da questa perniciosissima orda di assassini. In memoria di questo particolarissimo beneficio trovò il Vescovo Diocesano nel 1675 eretta in Riofreddo una Chiesa Campestre a S. Atanasio chiamato per antonomasia S. Liberatore.

(Nel 1798) Mariano Mariani alla testa di 500 di questi Scelerati (assassini) per vendicarsi di Riofreddo, dove era stato carcerato nel Novembre 1798, profittando dell'allontanamento della Truppa Francese da questa Terra la sorprende la mattina del 12 Marzo 1799, e fà saccheggiare orribilmente le case di Filippo Agostini, Giacomo, e Serafino Conti, di Giaginto Riccardi, ed il palazzo Baronale, e se il timore d’un arrivo di Truppe, che quei Scelerati temevano al semplice suono di un Tamburo, non li avesse sorpresi, il sacco si sarebbe esteso per tutte le case. Partirono i Scelerati ricchi d’un grosso bottino, ed esultanti per aver devastata anche la Spezieria della famiglia Agostini depredando tutti i titoli dei loro debiti.

Giò: Pasquale Caponi la sera dei 29 Luglio 1799 spinge la sua massa in Arsoli, e convoca tutti i Fazziosi di Oricola, di Rocca di Botte, di Pereto, di Poggio Cinolfo, e di Roviano per saccheggiare il dì vegnente Riofreddo. Una mossa anticipata fatta dagli Oricolani il giorno 28. libera Riofreddo dal sacco. Derubarono costoro 500 Pecore, e dodici Cavalli di Riofreddo. I riclami di questa depredazione giunsero opportunamente in Tagliacozzo, ed il Sig. Giò:Battista Resta spedì trenta uomini di forza regolare per costringere gli Oricolani alla restituzione del bestiame derubato.

[…] Anche i Vivaresi isolatamente si vollero sfamare nelle sostanze di Riofreddo. La mattina del 13 Agosto 1799 derubbarono tutto il Bestiame Pecorino, e nel giorno dei 20. cinquanta animali negri. Questa depredazione fù ricomprata con scudi ducento pagati dai poveri Proprietarj. La notte dei 23. una Truppa di Vivaresi commandata da Andrea Sforza invase la Casa dei Sebastiani; e la mise in contribuzione di scudi cento."

Dal manoscritto del 1830 circa di Don Bartolomeo Sebastiani, Memorie principali della terra di Roviano, insieme con altre notizie su Riofreddo, e, meno diffuse, sopra Anticoli, Arsoli, Subiaco, regione Equicola e via Valeria

Costanza Garibaldi (1910)

 “Fu uno dei miei più cari sogni, fino da quando venni in villeggiatura, quasi vent’anni fa, in questo ridente paesello di montagna, di poter essere utile a questa cara popolazione, cercando di aiutarla a raggiungere quei provvedimenti sanitari, come il pronto soccorso, che sollevano le sofferenze umane. Un primo esperimento fatto in casa nostra, mi aveva convinta che molte difficoltà dovevo incontrare prima di poter effettuare il mio desiderio - ma potendo usufruire di una delle stanze dell’antico ospedale o ricovero per i poveri di passaggio, ora ridotto in miserrimo stato - procurai di raccogliere i fondi necessari, onde assettare i muri e il pavimento e raccogliervi il materiale indispensabile per le prime e più comuni medicazioni. Organizzai varie feste, nei successivi anni, con il valido aiuto e gentile concorso della colonia villeggiante e finalmente il 4 settembre 1910, vidi realizzato il mio sogno, con l’inaugurazione ufficiale dell’Ambulatorio."

(1910)

Domenico Presutti (prima metà del Novecento)

"Ultimati i lavori di trasformazione dell’antico ospedale di Riofreddo nel nuovo che s’intitola al nome di Donna Costanza Garibaldi, esso è stato inaugurato il 14 novembre [1932] con una solenne cerimonia. Il nuovo ospedale, ben ripartito secondo la provvida mente di Donna Costanza, alacremente coadiuvata dalla figliuola sg.ra Rosa, è fornita da per tutto di luce elettrica e termosifoni, e possiede quanto è necessario per il suo funzionamento. Dall’ingresso che ha lateralmente la camera d’aspetto, ed il posto del custode, si passa alla lunga corsia, in cui sboccano dai due lati le stanze della Direttrice, e dei sanitari, quelle per la disinfezione, per i bagni, per l’armamentario chirurgico, oltre i gabinetti ecc. In fondo alla corsia a sinistra la sala di degenza per le donne, e a destra quella per gli uomini: più oltre le sale preparatorie e di operazione. Una ben riuscita scaletta porta al secondo piano, dove sono le vasche ed una comoda terrazza: immette poi al piano terreno dove un locale grande e luminoso è adibito ad ambulatorio e per il pronto soccorso. Più in basso la cucina, l’automatico porta vivande, ed infine due apparecchi, uno per il riscaldamento dell’acqua, e l’altro per il riscaldamento dell’acqua e degli ambienti. Un ultimo locale confinante con la menzionata chiesa, e che mediante una scaletta a chiocciola comunicherà con il piano superiore, sarà destinato ai poveri malati forestieri, in memoria dell’antichissima istituzione, per cui venivano ricoverati i poveri viandanti che dall’ex regno di Napoli, transitando per la via Valeria, si recavano a Roma.”

Domenico Presutti - Il ‘nuovo’ ospedale “Costanza Garibaldi”

Gastone Imbrighi (1984)

"AREO’REO’, è una caratteristica espressione popolare, una iteriezione tipica dialettale di Riofreddo che – con la sua speciale, particolare cadenza di voce - potrebbe, in lingua italiana, essere interpretata e venire tradotta con un ohibò, guarda un po’, pensa tu o similari e sta per l’anvedi del dialetto romanesco, dai significati plurimi che vanno dalla gioia per un incontro personale alla meraviglia per una notizia inaspettata e così via.

Tale interiezione a volte viene usata limitatamente alla prima parte, areò, più corrispondente in lingua italiana a un toh, espressione di stupore e a volte anche di disapprovazione, accompagnata nelle donne (che l’adoperavano maggiormente) da contemporanee e quasi impercettibili mosse della testa e del volto."

Gastone Imbrighi, Areòreò, in “Società riofreddana di storia, arte e cultura”, n.1, 1984.

Piero Marietti (2001)

"La calecara era una gran buca scavata nella parte posteriore dell’aia comunitaria, laddove il terreno cominciava a salire invitato dal prepotente pendio del Monte Aguzzo, peraltro ancora lontano. Nella buca abitava, come calato dall’alto a misura, un grosso trullo ricoperto poi di terra, quasi a volerlo mimetizzare. Solo la parte del trullo che si affacciava verso la discesa rimaneva scoperta e, a un osservatore occasionale, sarebbe sembrata una delle tante macere che contenevano e circondavano i campi intorno al paese. L’apertura della calecara, un archetto di stile romanico alto al culmine un mezzo metro, veniva attraversata incessantemente da una pala col manico di ferro lunghissimo con la quale u calecalaro riponeva in quell’infernetto i rimasugli spezzettati della trebbiatura. […]

Era un piacere risolvere il dopo cena intorno alla bocca della calecara, […] accanto al calecalaro. […] Si sedette sulla paglia tenuta asciutta dal continuo flusso di luce e si dispose a osservare i movimenti che adagiavano le patate nel letto di cenere bollente ricoprendole con altra cenere. In fin dei conti le patate dovevano gradire quel modo di essere cotte: erano abituate per nascita e crescita alle oscurità sotterranee. […]

U calecalaru sembrava un’entità intrinsecamente legata alla sua funzione e forse la sua sapienza gli veniva in realtà dall’essere un non-esistente, nel senso che gli uomini danno in genere all’esistenza. (…) Figlio della necessità e del ritmo delle stagioni era stato partorito già uomo e sempre immutabile (…) ad ogni fine trebbiatura (…) era l’artefice imprescindibile dell’ultima trasformazione necessaria a chiudere il povero ciclo economico della montagna contadina. […] Temperature, tempi, modi e atmosfere erano sottratti alle regole della chimico-fisica e affidati al solo controllo del calecalaro. […]

Immergendo la lunga pala nell’immenso sesso ardente di donna. Ne cavò ripetutamente la cenere, luminosa e occhieggiante, finché rimaneva nei paraggi del grande fuoco, grigia e appagata, ma ancora calda, come percorsa sotterraneamente dal flusso del sangue di quel parto reiterato una volta adagiata sul suo mucchio. Quindi alimentò la fornace con palate di paglia votata al sacrificio e il fremere grato di quell’utero infernale si riversò, attraverso la vagina di pietra, nel limitato intorno ai due astanti, illuminandolo con singulti e contrazioni di bagliore che, dapprima marcati e frequenti, si andarono smorzando di forza, ripetendosi a fatica a misura che veniva raggiunto il nuovo regime."

Piero Marietti, Il Tesoro di ‘Ntonio. Il destino nel suono di un nome, 2001

Artemio Tacchia (2001)

"Panarda significa pranzo. Fino alla metà dell’‘800 questi pranzi si consumavano nell’Oratorio dell’Annunziata. Rappresentavano un momento laico importante al margine della varie manifestazioni religiose nell’area laziale-abruzzese e che si potrebbero rintracciare in forma ridotta nell’offerta dei ‘rinfreschi’ che, al termine delle processioni, i ‘festaroli’ preparano per gli iscritti alle fratellanze. A Riofreddo erano inserite nei festeggiamenti religiosi e laici che comprendevano gare di lotta e di corsa per l’aggiudicazione del Palio. Scrive Bartolemeo Sebastiani “La corsia superiore  (dell’Ospedale dell’Annunziata) stabilita per l’Infermi fu assegnata per uso delle così dette Panarde solite farsi a Riofreddo nelle Feste dei Santi Protettori” e per le quali abusivamente gli amministratori  dell’ospedale utilizzavano le rendite di questo per comprare ‘stigli e utensili’. Nel 1756, durante la festa di s.Giorgio, ci fu uno scontro violento” “particolarmente tra quelli che erano al pranzo della Festa” e alcuni cittadini arsolani” (che si concluse con il trattato di s.Giorgio).

Anche a Riofreddo non mancava l’intervento del parroco mirante a far spendere il denaro, anziché per il Palio a vantaggio della chiesa. Nel 1766, ad esempio, Benedetto Carbone, ‘Signore di s.Giorgio’ acquistò per il parroco ‘una pianetta di setta’. Le ‘panarde’ continuarono a svolgersi malgrado fossero periodi duri a causa delle siccità ricorrenti. Nel 1779, Don Giovanni Ramos, annota: “I festaroli, cioè quelli che andarono a mangiare allo Spedale, furono solamente cinquanta, essendo solito passare il centinaio, perché ognuno temeva di non avere di che pagare”.

Decisamente contro la consuetudine antica di questi pranzi si mostrarono i francesi, durante il periodo della Repubblica Romana, ordinando il sequestro di tutti gli ‘stigli’ (stoviglie), i paioli di rame e le tovaglie, pur di “abolire le panarde solite farsi in codesto Cantone”.

Artemio Tacchia, Il rito collettivo delle panarde, dei cenacoli e dei rinfreschi nell’area equo-marsicana, in “Aequa”, n. 7, 2001.

Torquato Rocchi (1998)

"Pure avendo una popolazione non superiore alle 1000 anime, Riofreddo, prima della seconda guerra mondiale, vantava il primato, rispetto ai paesi limitrofi, di essere un centro di commercio e di attività artigianali non indifferente.

Lavorando il giorno e parte della notte, gli artigiani assicuravano il prodotto al fabbisogno del paese e ai numerosi clienti delle zone limitrofe e i commercianti smerciavano il loro prodotti anche nei paesi vicini e fino a Roma.

Le botteghe artigiane erano: 15 calzolai; 3 fabbri; 3 falegnami; 2 sellai; 8 sarti; 5 scalpellini; 8 muratori; 2 barbieri.

I commercianti erano: 2 grossisti di vino; 4 grossisti di granaglie; 3 mulini; 4 forni a legna; 4 pizzicherie; 1 latteria; 5 macellerie; 2 negozi di stoffe; 9 osterie e rivendite di vino; 1 bar-caffè; 3 frutterie; 1 cartoleria; 1 edicola; 1 tabaccheria; 1 farmacia; 3 alberghi e pensioni-ristoranti. […]

Tutto sommato si vive benino, senza tanto sfarzo, ed è un paese calmo e tranquillo in cui vale la pena trascorrere soggiorni per rilassarsi completamente lontano dalla città."

Da Torquato Rocchi, L’attività produttiva, in “Società riofreddana di storia, arte e cultura”, nn.57-58, 1998