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I Carrettieri

Con il carro, viaggiava la moneta…

Il luogo era quello di frontiera: ambiguo, insicuro, affascinante. L’ambiente erano montagne sassose solcate da freddi ruscelli e campi raschiati da aratri legnosi che lambivano i castagneti. Dove la valle sembrava allargarsi, piccoli appezzamenti di terra rossastra contendevano l’aria e la luce alla macchia di Sèsera. Dentro i confini del comune, come una ragnatela sfilacciata, si perdevano centinaia di sentieri, di strade sconnesse, strette e polverose che costringevano i carrettieri ad acrobazie magistrali per tenere fermi e diritti buoi e barrozza, cavalli e carretti, mule e vignarole.

Era su questi carri che a Riofreddo, fino all’ultima guerra, viaggiavano i soldi e con essi la possibilità d’una veloce emancipazione sociale ed economica. Chi ne possedeva uno  - intorno al 1850 si contavano ben 17 carretti - poteva ritenersi ricco o, almeno, sicuramente più ricco degli altri contadini schiacciati sulla terra dalla fatica e dai debiti. Chi, poi, faceva anche il procaccia postale, poteva ben dire, al pari del bovaro-carrettiere, che il mestiere rendeva e dava prestigio a tutta la famiglia.

Sui carretti a due ruote trainati da uno o più cavalli, molte famiglie riofreddane, in particolare dalla metà del Settecento, hanno fatto viaggiare olio, ortaggi e frutta, che in paese non si producevano, carbone per i signori e carne da vendere nelle fiere. Ma anche grano e vino dei possidenti locali da smerciare. Erano carrettieri-mercanti che commerciavano con i contadini dei paesi limitrofi e, di contrabbando, anche con i regnicoli. Con loro viaggiava anche la moneta, orgogliosamente guadagnata ed esibita.

Dopo il 1888, scaricati nella lontana stazione dal treno a vapore, in estate con il landau del procaccia, insieme alla posta, sono arrivate generazioni di villeggianti romani ad invadere la incredula località climatica di Riofreddo. E con esse ha viaggiato altra moneta che è servita a pagare pure gli artigiani locali, i pastori e i commercianti.

I carrettieri costituivano una categoria forte, in grado di condizionare la vita politica e sociale del paese. Facevano un mestiere che rendeva e che permetteva loro di maneggiare denaro.

Avevano un circuito di scambio limitano ai paesi vicini, all’area del carseolano e del reatino. Difficilmente si spingevano oltre, in mercati più aperti, fatta eccezione per quei pochi che commerciavano olio, carne o avevano una “posta fissa” per la vendita della frutta a Roma.

Aderivano quasi tutti alla Confraternita di S. Antonio Abate, che invocavano quando “te se faceva ‘na ròta o te cascava ‘na bestia”. Erano personaggi sempre al centro dell’attenzione, custodi di segreti, avevano fama di dongiovanni e nelle osterie, metaforicamente, si vantavano di come erano bravi a fare “schioccà la frusta”.