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Pastori e vaccari

Notevole era l’importanza del bestiame a Riofreddo all’inizio del XIX secolo. Da una lista redatta nel 1813, si rileva la notevole quantità di animali: 21 cavalli, 38 muli, 105 asini, 110 buoi, 50 vacche, 2 giovenchi, 58 maiali, 935 pecore e 146 capre. Tra i novanta proprietari di animali, spesso a sòcceta, quelli che ne possedevano di più erano allora sei. Tutti avevano contemporaneamente buoi, cavalli e muli. Nell’ultimo secolo, tutti tenevano sei o sette pecore per il latte, un poco di caso e ji arbacchi; ma, durante la seconda guerra mondiale, vi erano a Riofreddo ben 44 pastori che ne avevano almeno una trentina; vi erano inoltre 33 vaccari e 9 pastori di capre. Quando era freddo, i pecorai andavano a Tivoli, Guidonia o alla Campagna romana. Un ‘cappottaccio’, u maju, la rete, la frucella di ferro per fare la ricotta, il somaro, il cavallo, un carrettino; si dormiva in una baracca di lamiere; a Riofreddo anche niente… solo un ombrello e un po’ di paglia sopra alla quale sdraiarsi. Le bestie erano un bene prezioso: le stalle erano tutte esposte al sole, sopra la fonte o a Castiglione. C’era chi possedeva buoi e vacche per lavorare la terra o per il traino, ma chi allevava le vacche nnucche per il latte e la carne. Il vaccaro o buttero lavorava i propri terreni e quelli altrui, andava a opera, a Riofreddo o nei paesi limitrofi, e lavorava sotto le piante d’olivo e per fare la maggese. Fausto Conti allevava vacche nnucche; le teneva nella stalla e dava loro il fieno, l’acqua calda con un po’ di farina e le barbabietole da foraggio. Vendeva i vitelli alla fiera e il latte in una latteria sulla via Valeria, un angolino maiolicato con un lavandino. Si trasportava il latte in un grande secchio di dieci-quindici litri; più recentemente si disponevano delle bottiglie in cesti morbidi e si distribuivano nei vari rioni del paese.

La sòcceta.

“Andavamo con le pecore a combattere i lupi, scalzi e nudi, senza mangiare”

La sòcceta (soccida) traccia un confine importante tra ceti sociali diversi, tra possidenti da una parte, e pastori e vaccari dall’altra. Era un contratto soprattutto orale, raramente scritto, tra chi aveva i mezzi e chi non li aveva e, come per la terra, doveva dividere “alla metà”. Riguardava molti di coloro che lavoravano con gli animali, pecore o capre, vacche o buoi, ma potevano essere sottoposti allo stesso regime contrattuale anche i maiali.

In sostanza, vi era il sòccio maggiore e il sòccio minore (Soccidante e soccidario cioè l’allevatore). Se il primo metteva tutti gli animali (soccida semplice ) il contratto durava sei anni e poi si divideva a metà. Se il secondo metteva la sua parte (soccida parziaria), per esempio tre parti il padrone e una parte il pastore, si divideva dopo cinque anni. Il sòccio minore faceva le parti, il sòccio maggiore sceglieva la sua, capava il mucchio. Il sòccio minore metteva il lavoro, si spartivano a metà il fieno, il latte, il formaggio e la sua preparazione, gli abbacchi e i vitelli, ma anche le tasse, le contravvenzioni, le spese. Il letame era considerato il provento maggiore, perché serviva a concimare la terra. “Dovevamo rubà alla famiglia pe’ mantenesse boni i signori” e sperare, così, nel rinnovo della sòcceta o del contratto d’affitto della terra (oppure della soccida con conferimento di pascolo, in cui il bestiame è conferito dal soccidario, mentre il soccidante conferisce il terreno per il pascolo).